venerdì 15 febbraio 2013

TRASPARENZA SI, MA CUM GRANO SALIS. UNA DELIBERA DA RIFARE

di Giuseppe Marazzini
15.02.2013












Testo della delibera presentata in commissione e rinviata al mittente perché imprecisa e confusa, alle domande poste dai commissari non si sono  avute risposte esaurienti.


Linee guida dell'ANCI, elaborate a gennaio 2013, che in commissione non sono state spiegate, linee guida (testo evidenziato a pag. 5 e 6) che dicono esattamente come il comune si deve comportare in merito alla diffusione dati dei pubblici amministratori E NON RICHIAMATI NELLA DELIBERA. 

 
La Prealpina Legnano – venerdì 15 febbraio 2013, pag.35

 

mercoledì 6 febbraio 2013

La guerriglia dell’acqua

di Giuseppe Marazzini
06.02.2013

In attesa che anche a Legnano vengano realizzate le casette dell'acqua come comunicato dall'amministrazione comunale (Legnano24 – 6 febbraio 2013 – Casette dell’acqua: anche a Legnano quasi una realtà), non dimentichiamoci che il referendum del 2011 ha sancito che l'acqua deve essere pubblica. Quindi ogni furbizia o manipolazione messa in opera per mettere in discussione quel risultato è destinata a fallire. I cittadini non si faranno fregare.

La guerriglia dell’acqua
di Stefano Rodotà, da Repubblica, 31 gennaio 2013

Sarebbe opportuno che, impegnati troppo spesso in tenzoni sul nulla o in scambi di contumelie, i partecipanti alla campagna elettorale diano pure un’occhiata a un parere del Consiglio di Stato appena pubblicato, che riguarda la fissazione delle tariffe del servizio idrico. Si tratta di un nuovo episodio della lunga guerriglia ingaggiata dai molti interessati che cercano di cancellare i risultati dei referendum del 12 e 13 giugno del 2011, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione forzata dell’acqua e al criterio della «adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Venivano allora poste le basi perché l’acqua potesse essere concretamente attratta nella categoria dei «beni comuni».

Nella discussione pubblica irrompeva così un grande e ineludibile tema, rispetto al quale vi sono impegnative prese di posizione internazionali, prima tra tutte quella dell’Assemblea generale dell’Onu che ha definito l’accesso all’acqua un «diritto fondamentale di ogni persona ». Ma una interessata disattenzione ha fatto distogliere lo sguardo della politica da una questione di tanto rilievo, lasciando il campo libero a disinvolte scorrerie, a manovre antireferendarie.

L’obbligo dell’integrale rispetto dei risultati dei referendum era stato ribadito con particolare chiarezza da una importantissima sentenza della Corte costituzionale del luglio dell’anno scorso. Ora il Consiglio di Stato si muove nella medesima direzione. Il suo parere, tecnicamente assai bene costruito, era stato richiesto dall’Autorità dell’energia elettrica e del gas, alla quale spetta appunto il compito di fissare le tariffe. L’Autorità sosteneva che gli effetti del referendum non fossero immediati, sì che i gestori dei servizi idrici avrebbero potuto continuare a ricevere una remunerazione del 7% anche dopo il 21 luglio 2011, data indicata dal decreto che proclamava i risultati referendari. Contro questa pretesa si era mosso il movimento per l’acqua pubblica, con una campagna di “obbedienza civile” che invitava i cittadini a non versare quella parte della tariffa cancellata dal loro voto. Ora il Consiglio di Stato conferma la giustezza di questa tesi, sì che i gestori non potranno trattenere quello che hanno incassato illegittimamente.

Le acrobazie dialettiche dell’Autorità sono state spazzate via con una severa lezione basata su precisi richiami a quali siano gli effetti complessivi dei referendum, che potevano essere facilmente desunti da altre precedenti sentenze della Corte costituzionale, sì che l’atteggiamento finora tenuto dall’Autorità non può essere in alcun modo giustificato. Risulta evidente anzi, che essa non ha adempiuto alla funzione di garanzia che le compete.

Ma la guerriglia non è finita perché, con nuove acrobazie e forzature delle norme, sempre l’Autorità dell’energia elettrica e del gas ha fissato un nuovo sistema tariffario che, battezzandola come «costo della risorsa finanziaria», reintroduce proprio quella remunerazione del capitale del 7% cancellata dal referendum. Questa delibera verrà impugnata dal movimento per l’acqua pubblica e, dopo il parere di ieri, è presumibile che ne venga dichiarata l’illegittimità. Ma è ammissibile il comportamento di una Autorità che gioca la sua partita contro la volontà dei cittadini?


Il richiamo iniziale alla campagna elettorale e ai suoi protagonisti, allora, è tutt’altro che retorico, o d’occasione. Nelle pieghe del dibattito compaiono generici riferimenti ai beni comuni e dichiarazioni che, all’opposto, disconoscono proprio il risultato referendario, definendolo, con improntitudine pari all’ignoranza, solo una «indicazione ». È indispensabile che si esca dalla genericità e si avvii una discussione in primo luogo rispettosa della legalità, dunque dei risultati referendari, che non lasciano spazio a rivincite più o meno interessate. Questi risultati devono essere poi inquadrati in un contesto generale che riguardi, da una parte, una revisione generale della disciplina della proprietà pubblica, dando spazio adeguato alla nuova categoria dei beni comuni. E, d’altra parte, consideri l’insieme dei servizi pubblici in un’ottica costituzionale. Non dimentichiamo che l’articolo 43 della Costituzione italiana prevede che la gestione dei «servizi pubblici essenziali » possa essere affidata, oltre che allo Stato e ad enti pubblici, anche «a comunità di lavoratori o di utenti». Una linea, questa, riecheggiata dall’articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove si «riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale».

Proprio lungo questa strada s’incontra, senza forzature o eccessi inflazionistici, il gran tema dei beni comuni, che ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di mettere a disposizione delle persone quel che è necessario per rendere effettivi i diritti fondamentali. Tema della politica di oggi, non di un incerto e lontano futuro.

(1 febbraio 2013)

domenica 3 febbraio 2013

"Fondata sul lavoro" la solitudine dell'articolo 1


di GUSTAVO ZAGREBELSKY
02 febbraio 2013

Se, per esempio, l'Autore dei Ricordi dal sottosuolo fosse tra noi e riprendesse la parola, troverebbe nel nostro tempo ragioni per convalidare quella che, allora, fu formulata, e generalmente considerata, come la farneticazione d'un visionario: "Allora tutte le azioni umane saranno matematicamente calcolate secondo quelle leggi... oppure, meglio ancora, ci saranno pubblicazioni benemerite, sul genere degli attuali lessici enciclopedici, in cui ogni cosa verrà calcolata e stabilita tanto esattamente, che al mondo non si daranno più azioni né avventure" (ma si finirà nella noia mortale, aggiungeva Dostoevskij).

Forse, l'opera non è ancora conclusa, né tanto meno è conclusa con generale soddisfazione, ma certamente è in corso, come tentativo o, almeno, tendenza. Eppure, quel "fondata sul lavoro" che apre la nostra Costituzione vorrebbe essere il preannuncio di azioni e avventure indipendenti dalle tabelle di logaritmi econometrici. Vorrebbe starne fuori, anzi prima. Fuori dalle immagini letterarie, la questione è formulabile nei semplici termini seguenti. La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l'economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall'economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro.

Dicendo "dipendere" non s'intenda necessariamente determinare, ma condizionare, almeno, questo sì. Ora, il senso del condizionamento o, come si dice, delle compatibilità è certamente rovesciato. Il lavoro, da "principale", è diventato "conseguenziale". La Repubblica, possiamo dirla, senza mentire, "fondata" sul lavoro? Si dice che l'attività economica si è oggi spostata dalla cosiddetta "economia reale" alla "economia fittizia", l'economia finanziaria. Questa seconda mira a produrre denaro dal denaro, attraverso transazioni finanziarie, più o meno spericolate, più o meno lecite, che generano quelle che si chiamano "bolle speculative", scoppiate o pronte a scoppiare. Ora, l'economia reale può produrre lavoro e stabilità sociale; quella fittizia, no. Sottrae risorse al mondo del lavoro, produce instabilità sociale e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch'essi travolti, e noi con loro, da un sistema privo di fondamento. Questa finanza "mangia" l'economia reale, l'indebolisce, è nemica del lavoro. Perfino nelle difficoltà dell'economia reale s'avvantaggia.

Le crisi finanziarie che s'abbattono sui conti degli Stati sono determinate dagli interessi finanziari medesimi e sono certificate da agenzie indipendenti solo in apparenza, in un colossale conflitto (o, sarebbe meglio dire, in una colossale connivenza) d'interessi. Che cosa ha prodotto, del resto, il "risanamento" che il mondo finanziario internazionale chiede agli Stati, come condizione dei loro investimenti? Chiede "riforme". E queste riforme a che cosa hanno portato? Finora, a contrazione dell'economia reale, a crisi delle imprese, a disoccupazione crescente, al peggioramento delle condizioni dei lavoratori, a emarginazione del lavoro femminile, a riduzione delle protezioni sociali.

Bisogna dire con chiarezza: la finanza come mezzo e come fine è nemica della Costituzione. Di fronte alla pervasiva forza, legale e illegale, della finanza, la politica si dimostra troppo spesso succuba, connivente o collusa. Chi sa resistere alla forza del danaro, che corrompe o, almeno, debilita le forze che dovrebbero regolarla? Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversi porre: siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale?
  
Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d'una politica costituzionale del lavoro. Chi deve agire sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la decisione, che non è un'astratta scelta di preferenza, ma un programma concreto di lotta politica. Ora, in fine, un'osservazione, da "uomo del sottosuolo". Di fronte ai disastri sociali della finanza speculativa, occorre ritornare alla "economia reale", cioè alla produzione di ricchezza per mezzo non di ricchezza, ma di lavoro e di ricchezza investita sul lavoro. La parola d'ordine è "crescita". Per aversi crescita occorre stimolare i consumi, affinché i consumi, a loro volta, diano la spinta alla produzione e, dalla produzione, nasca lavoro cioè reddito che, a sua volta, alimenta i consumi: una ruota che deve girare. Tanto più consumiamo, tanto più lavoriamo e tanto meglio svolgiamo la nostra parte.

Naturalmente, non è detto che tutti lavorino e consumino come gli altri. Ci sarà chi può lavorare di meno e consumare di più, e chi deve consumare di meno e lavorare di più. Dipende dai rapporti sociali, cioè dalla distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi, cioè dai criteri di giustizia vigenti. In ogni caso, c'è qualcosa di sinistro in questa raffigurazione: l'essere umano che lavora per poter consumare e consuma per poter lavorare. Qui viene l'osservazione "umanistica". L'economia mondializzata, omologata agli standard produttivi delle grandi imprese, la grande distribuzione al loro servizio, la pubblicità che orienta i consumi e crea stili di vita uniformi: tutto ciò produce un'umanità funzionalizzata, ugualizzata nei medesimi bisogni e nelle medesime aspirazioni: in una parola, confluisce in una medesima cultura. Ciò significa elevare il conformismo a virtù civile. È questo ciò che vogliamo? O non occorrerebbe invece prestare attenzione a ciò che di originale si muove e cerca di crescere: nuove e antiche professioni, che cercano di emergere o riemergere, nuove forme di produzione, di collaborazione tra produttori, nuove reti di collegamento solidale tra produttori, nuove modalità di distribuzione e di consumo; riscoperta di risorse e patrimoni materiali e culturali esistenti, ma finora nascosti o dimenticati.

Il nostro Paese avrebbe tante cose e tante energie da portare alla luce nell'interesse di tutti, cioè nell'interesse del "progresso materiale e spirituale della società", come recita l'art. 4 della Costituzione. Nelle società libere, il compito della politica è capire, orientare e aiutare ciò che di fecondo cresce e, parallelamente, opporsi a ciò che cerca di riproporsi, secondo esperienze che hanno già fatto il loro tempo. Su questo terreno, mi pare che debba cercarsi la risposta a quella che, altrimenti, sarebbe solo una stucchevole controversia: la risposta alla domanda che cosa, oggi, voglia dire essere conservatori o
innovatori.

(02 febbraio 2013)