martedì 6 marzo 2018

UN DOCUMENTARIO DA PROIETTARE ANCHE A LEGNANO.

Giuseppe Marazzini
06.03.2018


















La mimosa proibita
di Gianni Bortolini – Huffington Post

Può sembrare incredibile, ma c'è stato un tempo, nella storia recente di questo paese, in cui distribuire la mimosa davanti ai luoghi di lavoro era considerato reato. C'è stato un tempo in cui delle donne hanno pagato col carcere questo gesto "sovversivo". Donne come Anna e Angela, che l'8 marzo del 1955 furono arrestate davanti ai cancelli della Ducati di Bologna proprio per aver regalato la mimosa alle operaie.

Come spiega Eloisa Betti, una delle realizzatrici del documentario "Paura non abbiamo" che raccoglie le testimonianze delle protagoniste di quel difficile periodo: "L' arresto fu determinato dal fatto che la distribuzione di mimosa dietro offerta libera, all'epoca veniva considerata una questua abusiva". In poche parole: era vietato mendicare in luogo pubblico senza avere il permesso delle autorità.

Ovviamente, le motivazioni dell'arresto erano ben più concrete di quelle prese a pretesto dalle forze dell'ordine. La Ducati all'epoca aveva dichiarato oltre 960 licenziamenti ed erano in atto lotte molto dure per difendere i posti di lavoro. Diffondere la mimosa davanti ai cancelli significava esprimere solidarietà alle lavoratrici in lotta, significava sfidare il potere costituito e le autorità.

Le parole di Anna Zucchini, operaia e attivista sindacale rievocano con precisione quei momenti: "Ci portarono in carcere affiancate da poliziotti e carabinieri. Entrammo a San Giovanni in Monte verso le due pomeridiane, dove ci accolse una suora. Nel braccio femminile erano le suore che fungevano da guardie carcerarie. E fu così che, invece di festeggiare l'8 marzo, ci cacciarono in galera".

All'arresto seguì un processo che fece scalpore. Quando le imputate entrarono in aula scoppiò un applauso fragoroso. Queste ragazze giovani, in alcuni casi poco più che bambine, vennero accolte dal pubblico come delle eroine, tanto che i carabinieri minacciarono di sgomberare l'aula se si fosse ripetuto un tale atto.

Nonostante la solidarietà di una parte importante della cittadinanza, dei lavoratori della Ducati licenziati per rappresaglia, e delle donne dell'Udi, il processo si concluse con una condanna. Anna Zucchini, Renata Simoni, Angela Lodi, Francesca Zanardi, Sara Lipparini furono condannate a un mese di reclusione e a 55mila lire di ammenda.

Un giornale dell'epoca vicino al movimento operaio commentava così la sentenza: "Afferma la Costituzione al suo art.21 che tutti hanno diritto a manifestare il proprio pensiero. Eppure questo articolo della legge suprema dello Stato ancora troppe volte non viene applicato e ad esso si sostituiscono gli articolo dei vecchi codici fascisti: vi è in ciò materia di meditazione e di lotta per ogni democratico perché la Costituzione sia sempre e ovunque legge operante".

"Paura non abbiamo" è anche un'occasione per ripercorre un periodo della nostra storia troppo spesso rimosso e dimenticato. Un periodo in cui le libertà democratiche e i diritti costituzionali raramente varcavano i cancelli delle fabbriche ed entravano nei luoghi di lavoro.

Infatti, tra il 1948 e il 1950 più di 60 lavoratori trovarono la morte negli scontri con le forze dell'ordine. La FIAT, e con essa importanti aziende bolognesi come la Ducati, la Weber, le Officine Minganti, crearono al proprio interno dei corpi di vigilanza privati col compito di intimidire e sorvegliare i militanti della Cgil e non solo. Si organizzarono dei veri e propri "reparti confino" allo scopo di isolare gli elementi sgraditi.

Dal 1949 al 1966, oltre ai licenziamenti per rappresaglia, si schedarono del tutto illegalmente più di 200.000 persone che vennero poi discriminate e fatte oggetto di ogni tipo di vessazione.

Alla luce di questi dati e di queste storie toccanti, non possono sorprendere le reazioni con cui la Fiom e la Cgil hanno accolto la cancellazione dell'articolo 18 e il Jobs Act. Al contrario, sorprende la superficialità con cui giovani rottamatori rampanti senza storia né memoria hanno messo mano ad articoli di legge che sono costati lotte decennali, sacrifici, carcere, e persino morti.

Le storie di Anna, Angela e di tutte coloro che parteciparono alle lotte della mimosa, trovano però un finale inaspettato che ci riconcilia con una memoria troppe volte tradita. Il carcere di San Giovanni in Monte, il luogo dove quelle giovani ragazze furono richiuse e dove migliaia di bolognesi negli anni '50 vennero imprigionati per aver preso parte a manifestazioni sindacali, è oggi la sede del Dipartimento di Storia dell'Università di Bologna. In San Giovanni in Monte oggi si tengono corsi che spiegano ai ragazzi, agli studenti, chi erano Anna, Angela, Renata Francesca e Sara.

Dove c'erano celle e refettori oggi ci sono sale studio e biblioteche. In definitiva, se è vero che la storia non è magistra di niente, è altrettanto vero che, coloro che la storia la fanno, a volte si prendono delle belle rivincite.

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